lunedì 11 marzo 2013

Armonie dello Spirito



«Il partire per il deserto, o verso terre straniere era, un tempo, un fuggire dalle città cristiane dove la fede rischiava di rinchiudersi su se stessa, comodamente seduta su certi poteri e certi sistemi; è l’inizio di un viaggio verso paesi, linguaggi e culture in cui Dio parla una lingua non ancora decodificata e non registrata. Il partire destina il pellegrino alla sorpresa. Traduce, geograficamente e socialmente, la certezza che Dio è l’incomprensibile senza il quale, tuttavia, è impossibile essere cristiani e uomini. Una solidarietà della fede lega a questo sconosciuto. Questo estraneo non cessa di essere (nel senso amoroso del termine) colui che manca ai cristiani.
Lo stesso avviene per l’esperienza spirituale. Una tradizione, fra le tante, lo mostra: la xeniteia, lo «sradicamento». Questo movimento che consiste nel partire per altrove, come Abramo, «senza sapere dove» (Eb 11,8), per udire in terra sconosciuta la parola umana di Dio, oppure nello sperare da altrove il suo volto d’uomo in una storia sempre sorprendente, è anche il movimento interno dell’avventura religiosa. È il modo dell’incontro.
Due correnti, infatti, sembrano dividersi la spiritualità cristiana: una mistica, l’altra escatologica. La prima attesta un’unione con Dio percepito come l’essenza o la respirazione dell’essere. La seconda esplicita il desiderio che attende Dio come colui che verrà alla fine. Si potrebbe credere che solamente la seconda manifesti l’estraneità di Dio. In realtà il mistico sperimenta, nel presente dell’unione, la necessità di perdersi: egli è preso, «rapito», si diceva in passato, cioè rubato e come annullato nella propria soggettività da qualcosa o qualcun altro che è la sua notte e insieme il suo necessario. È pacificato da chi gli toglie i suoi beni. Rivive di ciò che lo divora. Anche nella prospettiva escatologica, aspirata da un avvenire, il desiderio è l’ignoto che fa vivere già fin d’ora, l’estraneità che ha un senso: un’esistenza è strappata a se stessa, ma da una speranza che le conferisce la sua sussistenza attuale. Finalmente, da una parte e dall’altra, benché sotto forme inverse, emerge quest’»Altro» che è nondimeno «la mia vita». Nell’esperienza personale, l’Estraneo è a un tempo l’irriducibile e colui senza il quale vivere non è più vivere».

Michel de Certeau, Mai senza l’altro